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FRÉDÉRIC CHOPIN
Integrale delle opere
pianistiche / Complete Piano Works
Volume
2 ESPACES IMAGINAIRES Nocturnes op. 27 Berceuse op. 57 Études op. 25 Mazurkas op. 6, op. 7 Valse brillante op. 18 Scherzo op. 20 Sonate n. 2 op. 35 LINKS
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Radio3 Suite 2018-04-15 Interview Oreste
Bossini Rai Radio3 Primo Movimento 27/02/2018 La Repubblica D. Villatico
25/02/2018 |
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CD
1 Deux
Nocturnes op. 27 1.
in C sharp minor, Larghetto 2.
in D flat major, Lento sostenuto Prélude in C sharp minor op.
45, Sostenuto Berceuse in D flat major op.
57, Andante Etudes op. 25 1.in
A flat major, Allegro sostenuto 2.
in F minor, Presto 3.
in F major, Allegro 4.in A minor, Agitato 5.in E minor, Vivace 6.in
G sharp minor, Allegro 7.in
C sharp minor, Lento 8.in
D flat major, Vivace 9.in
G flat major, Allegro assai 10.in B minor, Allegro
con fuoco 11.in A minor, Lento.
Allegro con brio 12.in C minor, Molto
allegro, con fuoco CD
2 5
Mazurkas op. 6 1.in
F sharp minor 2.in
C sharp minor 3.in
E major, Vivace 4.in E flat minor,
Presto, ma non troppo 5.in
C major, Vivo 4
Mazurkas op. 7 1. in B flat major,
Vivace 2.in A minor, Vivo, ma
non troppo 3.in F minor 4.in A flat major,
Presto, ma non troppo Valse brillante in E
flat major op. 18, Vivo Scherzo in B minor op. 20,
Presto con fuoco Sonate n. 2 in B flat minor
op. 35 1.Grave. Doppio
movimento 2.Scherzo 3.Marche. Lento 4.Finale.
Presto |
Presentazione
Espaces imaginaires
«Sono
sempre con un piede da voi e con l’altro nella stanza accanto, dove lavora la
Padrona di casa, e assolutamente non mi sento presente a me stesso ma soltanto,
come di consueto, in uno strano spazio. Sono di certo espaces imaginaires, ma
io non me ne vergogno; esiste da noi un proverbio che dice: “con
l’immaginazione andò all’incoronazione”; e io sono perdutamente, un vero
mazoviano».
(F.
Chopin, lettera alla famiglia, Nohant, 18-20 luglio 1845)
«Due
verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper
nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza
dalla seconda: di non avere nulla a sperare dopo la morte.»
(G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri)
Il
significato della vita dell’uomo sembra librarsi per Chopin sulla vertigine
generata dalla tensione tra la forza disgregante del Nulla e la potenza
creatrice dell’Immaginazione, ulteriore declinazione della polarità
Eros-Thanatos individuata nel precedente volume della nostra integrale.
Il
fondamentale contributo gnoseologico chopiniano è a nostro avviso duplice: da
una parte il pensiero scolpisce attraverso il linguaggio musicale una
lucidissima analisi del principio nichilistico su cui pare fondato l’intero
cosmo, diagnosi affine per potenza intellettuale alla presa di coscienza
leopardiana, la cui importanza nella storia della cultura occidentale è stata
recentemente indagata da Emanuele Severino; dall’altra l’intuizione distende
universi paralleli ove grazie all’immaginazione convergono visioni
trasfiguranti della memoria, orizzonti utopici e seduzioni oniriche.
Gli espaces imaginaires suggeriti da questa
breve introduzione desiderano evocare solo alcuni dei sentieri che lasciamo
all’ascoltatore scoprire e inventare poiché l’essenza stessa della poesia
chopiniana, se restituita in modo autentico, vive di assonanze e imprevisti
slittamenti di significato dall’eco impalpabile che consentono un processo
ermeneutico sempre fecondo.
Sonata n. 2 in
si bemolle minore op. 35.
L’oscillazione
semiologica rifrange una fondamentale oscillazione ontologica, effetto
dell’azione esercitata da quel Nulla la cui morfologia è delineata con
sconvolgente forza drammatica nella Sonata n. 2 in si bemolle minore op. 35.
L’emozione
che ha ispirato queste pagine è così profonda che alcuni anni più tardi Chopin
confida a Solange, l’amatissima figlia della Sand:
Mentre
suonavo la mia Sonata in si bemolle a degli amici inglesi, mi è accaduta una
strana avventura. Avevo suonato più o meno correttamente l’Allegro e lo
Scherzo, e stavo per iniziare la Marcia, quando improvvisamente ho visto
sorgere dalla cassa aperta del mio pianoforte le creature maledette che mi
erano apparse alla Certosa in una lugubre serata. Ho dovuto uscire un momento
per riprendermi, dopo di che ho ripreso senza dire nulla…
Réti e
Walker hanno dimostrato la fittissima rete di relazioni motiviche che
sorreggono l’opera, garantendone quell’unità e coerenza di fondo che anche un
critico raffinato e competente come Schumann faticava a scorgere, forse perché
troppo legato alla teoria delle forme e dei generi di ascendenza classica.
Uno dei
vertici sommi dell’arte compositiva chopiniana, visionariamente proiettata al
futuro, è racchiuso nel Finale dell’op. 35, apparentemente omofonico, che tanto
scandalizzò Schumann e numerosi artisti romantici, tra cui anche Mendelssohn.
Il ritmo è
implacabile e senza rilievi, la sonorità sempre sottovoce e legato, il
cromatismo allude ad accordi di tre o quattro parti, ma la tridimensionalità
armonica e l’impianto formale si possono cogliere appena, a causa della
velocità di esecuzione che occulta la trasparenza dei valori armonici e
formali.
Quasi
suggerire che del Nulla non possiamo avere un’esperienza empirica poiché
trascende la nostra capacità di conoscenza e rappresentazione ma è possibile
intuirne gli effetti attraverso il processo di nientificazione da esso
esercitato incessantemente, attivo prima e dopo l’esistenza dell’uomo.
La vita
del mondo appare allora come un continuo alternarsi di forme all’interno della
macchina dell’universo ove l’individuo non è che una parvenza transeunte, uno
strumento che alimenta l’eterno divorare.
Se il
Finale getta uno sguardo angosciante sul Nulla eterno, la Marcia Funebre sembra
restituire il dramma della morte «in seconda persona», come la definiva
Jankélévitch, ovvero il doloroso percorso di formazione interiore che
accompagna la perdita di una persona cara.
Per
esprimere il carattere di inesorabilità Chopin utilizza mezzi semplicissimi:
due accordi che si alternano (in si bemolle minore e sol bemolle maggiore), il
raggruppamento di elementi melodici in due misure, la loro ripetizione, un
ritmo puntato ostinato.
Al Trio,
incastonato come un gioiello nel centro della Marcia Funebre, è affidato il
testamento spirituale dell’intera Sonata. L’irrevocabilità dell'istante mortale
e l’irreversibilità del tempo vissuto non possono nichilizzare, insieme a tutto
l'essere, anche il fatto inoppugnabile dell’esser-stato. Ciò che alla fine
permarrà di noi, è affidato a questo canto ove la bellezza inafferrabile della
poesia si trasfonde nella luce dolcissima del ricordo, uno degli assi della
poetica leopardiana e chopiniana, sul quale a propria volta si innesta con
forza il tratto elpidico.
Speranza
ed energia che pulsano con forza nel primo movimento della Sonata, sconvolgente
intuizione della morte «in prima persona». Rosen ha dimostrato esaurientemente
come il Grave introduttivo, in cui si fronteggiano contrappuntisticamente due
versioni di un’unica idea motivica, debba essere considerato parte integrante
dell’esposizione e quindi incluso nella ripetizione del ritornello.
Da un
frammento del ritmo galoppante della coda scaturisce lo Scherzo in mi bemolle
minore, definito da Belotti una «danza degli scheletri». Queste creature della
notte, fantomatiche proiezioni di una immaginazione allucinata, sembrano
roteare con i loro vortici cromatici sull’abisso del nulla, mentre una dolcezza
protettiva e consolatoria avvolge il Più lento in sol bemolle maggiore. Il
cuore autentico del movimento è racchiuso nella suadente sezione centrale del
trio la cui infinita tenerezza è tale da ammansire le creature infernali che si
dileguano alla fine della ripresa, chiudendo lo Scherzo in un’atmosfera di
mistero e ambiguità.
Douze Etudes op. 25.
Il
principio del contrasto espressivo anima anche i dodici Studi op. 25, elaborati
tra il 1829 e il 1836 e dedicati a Marie d’Agoult, amante di Liszt, cui era
stata dedicata la prima raccolta dei dodici Studi op. 10.
Il
virtuosismo che attrae Chopin non è mai fine a se stesso ma sempre finalizzato
all’evocazione poetica che ispira l’invenzione tecnica e linguistica.
Di grande
raffinatezza appare innanzitutto la concatenazione armonica dell’op. 25 che
inizia riprendendo l’alternanza tra tonalità maggiore e relativa minore,
utilizzata nell’op.10 e nell’op. 28, ma presto svela tratti molto più
sofisticati che assicurano insieme unità e varietà all’intero polittico.
Nonostante
Schumann ritenesse complessivamente l’op. 25 inferiore all’op.10, resta tuttavia
indimenticabile il commento poetico all’esecuzione di alcuni di essi che il
compositore tedesco ebbe la fortuna di ascoltare dal vivo nell’interpretazione
dell’autore.
Scherzo n. 1 in
si minore op.20.
Strettamente
connesso al clima incandescente dei tre studi che chiudono l’op. 25 è il primo
dei quattro Scherzi, genere in cui Chopin riprende alcuni tratti caratteristici
dello scherzo beethoveniano, mutandone però completamente il carattere e
immaginando opere dall’intensa drammaticità.
Frutto di
un’introspezione lucidissima, lo Scherzo n. 1 è un autoritratto fulminante,
specchio di un’anima scossa, instabile, la cui fragilità è testimoniata dalle
angosciate lettere agli amici più cari.
Il 26
dicembre 1830 Chopin descriveva all’amico Jan lo stato psichico che lo
affliggeva, venato di grande nostalgia: «devo fare la parte dell’uomo
tranquillo, ma poi tornato a casa tuono sul pianoforte», «dentro me non ho
pace, se non forse quando tiro fuori tutte le vostre lettere». Evocando le
emozioni provate nella Chiesa di S. Stefano, il turbamento interiore appare
ancora più profondo:
È
indescrivibile la magnificenza, la grandezza di quelle immense volte, c’era
silenzio, talvolta soltanto il passo del sagrestano che accendeva le lucerne in
fondo alla chiesa interrompeva il mio letargo. Dietro di me una tomba, sotto di
me una tomba…Soltanto sopra di me una tomba mancava. M’irrompeva dentro una
cupa armonia… Sentivo più forte che mai la mia totale solitudine.
Per
Belotti si tratterebbe dell’atto di nascita dello Scherzo n.1, confermata dal
fatto che nel Trio viene inserita una melodia popolare natalizia, Lulaize
Jezuniu (Fa la nanna piccolo Gesù), caratteristica della Mazowia, la regione in
cui Chopin era nato.
Valse Brillante in mi bemolle maggiore op. 18.
L’altro
volto della bruciante e sconvolgente introspezione interiore che accompagna il
soggiorno viennese di Chopin è quello rappresentato dalla leggerezza mondana
cui appartiene anche il Valse Brillante op. 18, composto nel 1831, pubblicato
tre anni più tardi e divenuto presto molto noto e richiesto a gran voce durante
le serate aristocratiche.
A ben
vedere anche questa sfavillante composizione da concerto rievoca radici
polacche (si pensi alle emiolie dell’introduzione), ma ciò che più avvince è la
sua straordinaria gioia di vivere e la fine caratterizzazione psicologica
accompagnata da eleganza e charme. Non c’è superficialità in questo
irresistibile invito alla danza che svela uno Chopin socievole, intrigante, ma
sempre pieno di poesia, capace di cogliere traccia della vertigine della vita
anche ove essa sembra scivolare via come seta in una danza «che afferra la
mente e il corpo», avvolgendoci nei suoi flutti misteriosi.
Mazurche op. 6 e
op.7.
Se nei
Valzer brilla l’eleganza aristocratica dello Chopin più mondano, nelle Mazurche
a parlare è invece il «genio poetico di una nazione», come annotava Liszt,
capace di liberare «l’ignoto di poesia» racchiuso nei temi originali della
Mazovia.
Occorre
innanzitutto distinguere tra la Mazurek (la mazurca vera e propria, con accenti
mobili, in genere presenti sulla seconda battuta), la Kujawiak, dal carattere
più lirico, in tempo meno mosso e spesso in tonalità minore, e l’Oberek, vivace
e popolaresca, caratterizzata dall’accento marcato sulla terza battuta delle
misure pari.
L’esecuzione
delle Mazurche data dall’autore era assolutamente inimitabile grazie
all’invenzione ornamentale estemporanea e soprattutto a quel rubato che
arrivava a trasformarne il ritmo ternario in binario, a causa dell’allargamento
della misura che conteneva l’accento più marcato.
Di grande
suggestione sono le pagine lisztiane in cui vengono ampiamente descritti lo
spirito patriottico rappresentato da questa danza nazionale e le sue modalità
di esecuzione, ma la mazurca chopiniana non è stata pensata per essere danzata.
Ciò che il
compositore intendeva restituire era infatti soprattutto l’essenza della
polonità e, nelle opere più mature, la struggente nostalgia della patria
lontana.
All’intarsio
formale di ogni danza corrisponde un’oculata disposizione delle mazurche
all’interno dei fascicoli, ordine attentamente disposto dall’autore e che la
PVM, da noi adottata come riferimento in questa incisione, ripropone
fedelmente, seguendo l’edizione francese.
La
composizione delle Mazurche op. 6 e op. 7 risale al periodo di Varsavia.
Seguendo
le indicazioni della PVM, inseriamo a conclusione dell’op.6 la Mazurca in do
maggiore che talvolta si trova collocata alla fine dell’op.7, onde evitare la
successione ravvicinata di due danze brevi.
Deux Nocturnes op. 27.
Schumann
definisce i Deux Nocturnes op. 27, composti tra il 1834 e il ’35 come «la cosa
più incantevole e fantastica che mai sia stata creata in musica».
L’asse
enarmonico che salda fra loro il do diesis maggiore con cui termina il primo
notturno al re bemolle maggiore del secondo rappresenta, come ricordavamo
precedentemente, uno dei percorsi armonici prediletti dal compositore, che gia
Beethoven nella sua Sonata op. 27 n. 2 aveva scandagliato in tutte le sue
potenzialità espressive.
Una
particolare audacia compositiva caratterizza il Notturno n.1, immerso in
un’atmosfera misteriosa velata da sottilissime nuances, ottenuta grazie
all’alone del pedale e alle micro oscillazioni cromatiche tra il minore e il
maggiore che preludono alle ambiguità modali del linguaggio busoniano.
La ripresa
liquidata del Tempo I si acquieta in una coda cullante in cui l’elemento
discendente del tema si accende di luce astrale inattesa grazie alla conquista
del modo maggiore.
Su questo
sfondo rasserenato risplende come un gioiello il Notturno n. 2 in re bemolle
maggiore, coevo al precedente e tra i prediletti dell’autore.
La limpida
e armoniosa costruzione del tema, che si regge sul III (fa), V (la bemolle) e
VI grado (si bemolle), i tre gradi caratteristici della melodia chopiniana, già
racchiusi nella misura di introduzione affidata ala mano sinistra, emana una
pace che ricorda i celebri versi leopardiani:
Dolce e
chiara è la notte e senza vento,
E queta
sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la
luna, e di lontan rivela
Serena
ogni montagna.
La natura
intensamente cantabile della linea è impreziosita dei più fini ornamenti,
grazie a una scrittura pianistica fantasiosa e plastica che conserva al proprio
interno anche una fitta trama polifonica, nutrita da una tecnica
contrappuntista calcolata sull’efficacia uditiva.
La lunga
cadenza di bb. 51-52 ammanta come polvere di stelle i filamenti tematici
preannunciando il magico finale. Nella prima sezione della coda (b. 62) Chopin
gioca con le settimane diminuite su pedale di tonica creando un’atmosfera di
sospensione e sogno; a b. 70 l’incanto diventa ipnotico grazie al tessuto
polifonico a due voci, speculari rifrazioni delle cellule germinali. Il sogno
si trasforma così in via di accesso alla conoscenza più profonda dell’anima,
come rivelerà la Berceuse op. 57.
Prélude in do diesis minore op.
45.
Strettamente
connesso a queste atmosfere oniriche è anche il Prélude op. 45, composto nel
1841 su richiesta di Schlesinger e inserito in un Beethoven Album ideato a Bonn
per sostenere la costruzione di un monumento a Beethoven.
Sul plasma
di un tessuto armonico avveniristico e visionario, si delinea una geografia
interiore che oltrepassa spazio e tempo grazie alle modulazioni trascoloranti
dell’unico motivo a figurazione su cui si regge l’intera opera, articolata in
tre sezioni più cadenza e coda.
Chopin
dipinge le sue forme direttamente attraverso il colore, disteso a fasce, come
avviene nell’ultimo Tiziano, preludendo a una concezione impressionistica.
In ascolto
sul bordo dell’anima, emerge l’infinita iridescenza del vissuto, con le sue
curve, i suoi perenni Sud, le sue cerulee depressioni, le profonde oscurità
delle sue notti, la terre promesse delle sue utopie, i suoi baratri stagnanti.
Il gioco
della memoria porta ai confini dell’immaginazione e del sogno, contro cui si
scontra la realtà del do diesis minore, ove prende volto la lucida, struggente
consapevolezza di una felicità ormai irraggiungibile.
Berceuse in re
bemolle maggiore op. 57.
Dopo lo
scioglimento dei vincoli armonici esplorato nel Preludio op. 45, la Berceuse
op.57, composta nel 1843 e pubblicata nel 1845, rappresenta una nuova sfida
compositiva. Sull’ostinato pedale di tonica che regge e annoda le quattordici
varianti di un semplicissimo tema di quattro battute, Chopin indaga le nuove
prospettive aperte dalla destrutturazione di un unico oggetto sonoro scomposto
e osservato da più punti di vista. Attraverso il cromatismo e le alterazioni
derivate dall’uso della scala tzigana popolare e del modo eolico, la tensione
disgregante diventa strumento per ledere i confini del reale e trasformare il
vissuto in sogno grazie alla connessione attuata dalle reti evocative.
Un
mantello invisibile protegge questo espace imaginaire, testamento spirituale
eretto da Chopin a invincibile baluardo contrapposto alla vertigine del Nulla.
Letizia Michielon